L’addio del “Maestro” Franco Battiato ha lasciato un vuoto incolmabile nella comunità siciliana che lo ha amato tanto come artista quanto come uomo. Sono pochi infatti i cantautori che hanno lasciato un segno indelebile nella storia, poiché capaci di creare un totale connubio tra la produzione artistica personale e il proprio stile di vita. Difatti l’essere, come spesso amava sottolineare Battiato, deve venire sempre prima dell’artista. In un’intervista si poté evincere tale nobile valore in lui saldamente connaturato: “Sono un tipo che per un gesto di dignità umana sarebbe capace di buttare tutta la sua produzione nella spazzatura”. La sua composizione è stata pertanto la colonna sonora di un’intera vita. Il suo repertorio spaziava infatti da melodie leggere, arrangiamenti moderni e testi che abbracciavano il trascendente e il colto, grazie anche alla collaborazione con l’illustre filosofo catanese Manlio Sgalambro, autore dei testi delle sue canzoni dal ’95 al 2012. Tra quest’ultime si annoverano dei classici tutt’ora vivi nella memoria dei suoi fans, tra cui: “Bandiera bianca”, “Centro di gravità permanente”, “L’era del cinghiale bianco”, “Voglio vederti danzare”, “Cuccurucucù Paloma”, “E ti vengo a cercare”, fino all’opera canora probabilmente più emblematica della sua produzione artistica, ovvero “la Cura”. Sebbene diversi suoi testi sembravano richiamare in un primo momento all’amore tra un uomo e una donna, in realtà non era affatto così. Trattasi di un significato ancora più profondo. I suoi testi sono difatti intrisi di riferimenti alla filosofia orientale e al misticismo, tanto che alcuni critici hanno interpretato “La Cura” come una preghiera rivolta al Sé interno, alla propria anima, a quell’ “Essere speciale” di cui parla lo stesso Battiato. Fu seguace di Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo e mistico vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900, da cui trasse l’ispirazione per “Centro di gravità permanente”, ovvero un termine usato in un’opera del mistico armeno (“Frammenti di un insegnamento sconosciuto”) per indicare lo stato di coscienza intermedio dell’uomo, dove tramite un lavoro su di sé diventa possibile divenire liberi dai comportamenti meccanici e condizionati. Un uomo schivo e riservato, amava vivere nella sua dimora a Milo, alle pendici dell’Etna. Proprio l’ex castello della famiglia Moncada, da cui era possibile intravedere un suggestivo panorama, tra cielo, mare, limoni e mandarini, era divenuto per lui una sorta di eremo, dove trascorreva le sue giornate meditando e ricercando la giusta ispirazione per le sue opere, non solo musicali ma anche pittoresche. Battiato infatti trovò un ulteriore modo per esprimere il suo dialogo interiore attraverso circa 80 opere figurative, tra tele e tavole dorate. Il suo essere poliedrico lo ha portato a sperimentare comunque tra diversi generi musicali, spesso mescolati tra loro, come solo lui sapeva fare: iniziò con il pop negli anni sessanta, passando poi al rock progressivo e all’avanguardia colta degli anni ’80 per poi tornare alla canzone d’autore. La residenza del “Maestro” Battiato, Villa Grazia, diverrà al più presto un vero e proprio museo musicale, con l’intento di preservare e tutelare tutto ciò che possiede un valore artistico, etnoantropologico e culturale per fare in modo che il suo ricordo possa continuare ad essere vissuto nella memoria dei suoi ammiratori. L’assessore ai Beni culturali e dell’identità siciliana Alberto Samonà ha dichiarato quanto quest’abitazione sia in grado di esprimere quel silenzio e quella spiritualità sempre presente nelle composizioni di Franco Battiato. Un artista, quest’ultimo, destinato a vivere in una dimensione che va al di là del tempo, dove non può esistere una fine semplicemente perché non v’è mai stato un inizio, come egli stesso credeva e affermava nel brano “Testamento”: “We never died We were never born, noi non siamo mai morti e non siamo mai nati”. La vera essenza della vita è pertanto maggiore rispetto alla caducità della sua esistenza: essenza che va oltre la morte.
Alessandro Milazzo